Contratto a tempo determinato, rinnovi e proroghe: problemi aperti e possibili soluzioni

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Il decreto Dignità, pur applicandosi a tutti i contratti a termine stipulati successivamente alla entrata in vigore del decreto, riverbera i suoi effetti anche sui contratti a tempo determinato in corso al 14 luglio 2018. L’Esecutivo non ha, infatti, pensato ad un periodo transitorio con la conseguenza che i contratti in essere (nati quando il tetto massimo si raggiungeva a 36 mesi) che, alla data del 14 luglio 2018, hanno superato la nuova soglia dei
24 mesi non possono essere rinnovati o prorogati. In tale caso, cosa deve fare il datore di lavoro?
Con il decreto Dignità l’istituto delle proroghe e dei rinnovi dei contratti a termine è stato, profondamente, ritoccato. Ma, andiamo con ordine. Prima del comma 1 dell’art. 21, è stato inserito il comma 01 ove si stabilisce, come regola generale, che il contratto a termine può essere rinnovato soltanto in presenza di una delle causali individuate al comma 1 dell’art. 19 e che, qualora ci si trovi di fronte al primo rapporto, questo può essere prorogato liberamente all’interno del periodo massimo (12 mesi) mentre, successivamente, soltanto in presenza di una esigenza specifica contemplata dalla causale.
Ora, il numero massimo delle proroghe viene stabilito in 4 nell’ambito dei 24 mesi e a prescindere dal numero dei rinnovi contrattuali che, comunque, è bene ripeterlo, a partire dal secondo, debbono essere supportati da una causale, pur se si è all’interno dei primi 12 mesi.

 

Cosa cambia: Contratto a tempo determinato
In sostanza, continuano ad essere una sorta di “bonus a scalare” da spendere nell’arco temporale massimo e non sono più riferite ai singoli contratti a tempo determinato, come accadeva, ad esempio, con il D.Lgs. n. 368/2001. Da ciò ne consegue che il datore di lavoro può gestire le proprie eventuali esigenze a termine, stipulando sia una pluralità di contratti a tempo determinato (ma con la causale a partire dal secondo), pur nel rispetto degli intervalli di 10 e 20 giorni se non abrogati o ridotti dalla contrattazione collettiva, che, attingendo alle proroghe (con specifica, anche in questo caso, della causale a meno che non si resti all’interno dei dodici mesi del primo contratto), che, infine, ricorrendone le condizioni, alla possibilità di
“sforamento” del termine, con la prosecuzione del rapporto fino a 30 o 50 giorni (a seconda della durata del contratto) con le maggiorazioni legali previste già previste dall’art. 5 del D.Lgs. n. 368/2001 e confermate dall’art. 22, comma 1. Ma, cosa succede se il numero delle proroghe, nell’arco temporale prefissato, risulta superiore a 4? Il D.L. n. 87/2018, afferma che il rapporto si considera a tempo indeterminato a partire dalla
data di decorrenza della quinta proroga (e non, quindi, dall’inizio). Consenso del lavoratore

 

Il consenso del lavoratore è sempre richiesto: qui nulla è cambiato rispetto al passato e la stessa Giurisprudenza ha convenuto, fin dalla vigenza della legge n. 230/1962, che lo stesso potesse essere manifestato in forma orale (Cass., n. 6305/1988; Cass., n. 4360/1986; Cass., n. 3517/1981), o ravvisabile per “fatti concludenti” dalla prosecuzione dell’attività lavorativa (Cass. n. 4939/1990) e potendo essere fornito dal prestatore, anche in via preventiva, al momento della stipula iniziale (Cass., n. 6305/1988).

Causale per le proroghe
Si pone, poi, un’altra questione relativa alla proroga, cosa che, con il vecchio testo, era di secondaria importanza: ora, tranne il caso dei primi 12 mesi, anche la proroga va motivata con una causale. Quindi, potrebbero tornare in auge le conclusioni alle quali, in presenza delle condizioni previste al comma 1 dell’art. 19, giunse la Giurisprudenza (Cass., n. 10140/2005; Cass., n. 9993/2008) che l’aveva correlata alla “dimensione oggettiva riferibile alla destinazione aziendale”. Ciò stava a significare che attraverso la proroga il dipendente non poteva essere adibito ad altre attività non correlate a quelle per le quali il contratto era stato originariamente stipulato: ovviamente, la proroga, ferme restando le mansioni, potrebbe riferirsi ad una causale (ad esempio, ragioni sostitutive) diversa da quella originaria (ad esempio, incrementi temporanei e significativi). Dirigenti e start up innovative
Un problema del tutto particolare è rappresentato dall’istituto della proroga per i dirigenti che, possono stipulare contratti a termine di durata non superiore a 5 anni. La giurisprudenza, sottola vigenza della precedente normativa, aveva chiarito che la proroga (comunque, entro il limite massimo) era possibile anche senza necessità di rispetto delle condizioni modali e temporali stabilite dall’art. 2 della legge n. 230/1962 (Cass., 28 novembre 1991, n. 1274; Cass., 17 agosto 1998,n. 8069). L’art. 21, comma 3 afferma, poi, che i limiti relativi alle proroghe ed ai rinnovi non si applicano alle imprese. “start up innovative” previste dall’art. 25 della legge n. 221/2012 per il periodo di 4 anni dalla costituzione.

Contratti stagionali
C’è, poi, il problema delle proroghe nei contratti stagionali: la norma inserita nell’art. 21 ha una valenza generale che, però, poco si attaglia ai rapporti la cui causale deve correlarsi alla stagionalità. Probabilmente, la questione è meno pressante che in altri settori potendosi, per legge, “legare” un contratto all’altro senza soluzione di continuità, ma questo significa, da un punto di vista prettamente operativo, una maggiore difficoltà burocratica (occorre stipulare un nuovo contratto, sono necessari altri adempimenti, ecc.).

Leggi anche: Lavoro stagionale: non serve la causale
Comunicazione al Centro per l’impiego La proroga del contratto a tempo determinato va comunicata esclusivamente in via telematica, entro cinque giorni dal momento in cui si è verificata (se cade di giorno festivo il termine è, legittimamente, prorogato al primo giorno non festivo successivo) al Centro per l’impiego, competente per territorio o presso il quale il datore di lavoro è accreditato, utilizzando la sezione 4 del modello “Unilav”. L’inottemperanza al precetto (mancata comunicazione o ritardo) è punita con una sanzione amministrativa compresa tra 100 e 500 euro, onorabile con il minimo per effetto della c.d. “diffida obbligatoria”.

Impugnazione del contratto
Il D.L. n. 87/2018 (art. 1, comma 1, lettera c) ha, altresì, introdotto un’ ulteriore modifica di natura processualistica che va ad inserirsi nel comma 1 dell’art. 28. L’impugnazione del contratto a tempo determinato deve avvenire, pena la decadenza, entro 180 giorni (prima erano centoventi) dalla sua comunicazione in forma scritta o dalla comunicazione, sempre in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale: essa può avvenire, con qualsiasi atto, pur di natura extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore al datore di lavoro anche attraverso l’intervento di una organizzazione sindacale. Ovviamente, l’impugnazione è inefficace se non segue, con le modalità previste dal secondo comma dell’art. 6 della legge n. 604/1966, il deposito del ricorso presso la cancelleria del Tribunale in funzione di giudice del lavoro. L’allungamento dei termini per proporre il ricorso giudiziale dovrebbe consentire, in un ottica di prevedibile aumento delle liti legate, soprattutto, all’accertamento della veridicità delle causali, situazioni conciliative pregiudiziali tra lavoratore (magari assistito da un legale) e l’azienda, con un sicuro aumento dei costi indiretti legati alla soluzione risarcitoria finalizzata ad evitare l’intervento della Magistratura.

Regime transitorio
Appare, a commento, dell’art. 1, utile sottolineare le disposizioni contenute nel comma 2: la nuova normativa si applica a tutti i contratti a termine stipulati successivamente alla entrata in vigore del Decreto Legge e, cosa importante, ai rinnovi ed alle proroghe dei contratti a tempo determinato in corso alla data di entrata in vigore del provvedimento. Da quanto appena detto si ricava una considerazione: l’Esecutivo non ha pensato ad un periodo transitorio per quei contratti in corso che, alla data del 14 luglio 2018 (data di entrata in vigore della norma), abbiano superato la soglia dei 24 mesi (essi erano nati quando il tetto massimo si raggiungeva a trentasei mesi). Ebbene, tali rapporti non possono essere rinnovati o prorogati ed
il datore dovrà scegliere se risolvere il rapporto ed assumere un altro lavoratore, oppure trasformare lo stesso, da subito, a tempo indeterminato (magari, usufruendo del beneficio previsti dal comma 100 dell’art. 1 della legge n. 205/2017, in presenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi richiesti dal Legislatore).

Eufranio Massi – Esperto di Diritto del Lavoro per Ipsoa

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