Controllo di gestione: un abito per tutte le stagioni

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Agostino Scornajenchi – CFO Gruppo TERNA

Come una bottiglia vuota, che di volta in volta, e di azienda in azienda, si presta a contenere liquidi diversi, il controllo di gestione si utilizza per vari scopi e in larga misura dipende da come chi ne è responsabile interpreta il suo ruolo. A seconda delle fasi aziendali, e della diversa maturità dei processi, il controllo di gestione può agire, per esempio, come stampella dell’amministrazione; in altri casi, agisce di supporto al business, tramite la reportistica; oppure, arricchisce (ma mai può sostituirla) la discussione di pianificazione strategica, supportando la definizione dei vari scenari di sviluppo ipotizzati. Di questi temi si parlerà al 3° Forum Controllo di gestione, organizzato da Wolters Kluwer in collaborazione con ANDAF, in programma a Milano il 21 settembre 2018. Alcuni amici mi hanno chiesto di intervenire sul tema della pianificazione e controllo. Lo faccio volentieri, sperando di fornire un punto di vista poco accademico ma spero… pratico. Una semplice definizione Su cosa sia la pianificazione e controllo di gestione, molto si è scritto e molto si scriverà. Fra le migliaia di fonti autorevoli, partirei da quella più semplice e alla portata di tutti: Wikipedia.

“In un’azienda il controllo di gestione o direzionale è il meccanismo operativo volto a guidare la gestione verso il conseguimento degli obiettivi stabiliti in sede di pianificazione operativa, rilevando, attraverso la misurazione di appositi indicatori, lo scostamento tra obiettivi pianificati e risultati conseguiti e informando di tali scostamenti gli organi responsabili, affinché possano decidere e attuare le opportune azioni correttive”.

Giusto?

Per quanto perfettibile, sembra una buona base per partire. Tuttavia, quando si prova a definire qualcosa elencando una serie di elementi distintivi, la prima cosa che accade è che se ne lascia fuori qualcuno. Che vuol dire, ad esempio, “appositi indicatori?” Chi è responsabile di fissare tali indicatori?
Chi li dovrà consuntivare ha partecipato alla loro definizione? E sono quelli “giusti” per capire le cose o sono quelli che qualcuno (tipicamente la mitica
Corporate…) vuole per riempire le caselle di qualche spreadsheet gestito in qualche oscuro recesso dei corridoi della sede centrale?

E gli obiettivi, mitologica creatura del business moderno? Chi li fissa ha la competenza per poterlo fare oppure è solo il paravento che nelle aziende
ricche serve a dare una giustificazione all’integrazione salariale dei dirigenti, e in quelle povere uno sterile esercizio di qualche polveroso ufficio, tanto alla fine è sempre l’imprenditore che è l’unico che ha il naso per capire bene le dinamiche di questo mestiere? In effetti, da diversi anni sul controllo di gestione impera un dibattito, a tratti spinoso. Peter Drucker, uno dei più noti ed affermati consulenti della storia, conosciuto come il padre delle scienze manageriali, morto a 96 anni nel 2005 dopo una vita divisa fra filosofia e studi sul business, affermava che l’esercizio di pianificazione è di fatto incompatibile con una moderna economia imprenditoriale.

Non contento aggiungeva: la pianificazione è il bacio della morte (the kiss of death) dell’imprenditoria moderna. E allora, come la mettiamo? A cosa servono i plotoni di controller che, sull’onda dell’esperienza anglosassone a partire da fine anni 90 hanno invaso le aziende italiane? Ha davvero senso continuare a farsi torturare da questi personaggi che taglieggiano i manager operativi con previsioni, ri-previsioni e ancora ri-previsioni, mai contenti dell’allineamento dei dati di consuntivo rispetto a quanto previsto? (ma erano le revisioni ad essere giuste e i consuntivi sbagliati o viceversa?) Interrogativi che in tanti ci siamo posti nel corso della vita professionale. Il tema affrontato nell’articolo sarà oggetto di approfondimento nel corso del 3° Forum Controllo di gestione, in programma a Milano per il 21 settembre 2018. Le iscrizioni sono ancora aperte, scopri il programma Una bottiglia vuota In effetti, a ben pensarci, il controllo di gestione è come una bottiglia vuota, che di volta in volta, e di azienda in azienda, si presta a contenere liquidi diversi, a seconda delle esigenze. A seconda delle fasi aziendali, e della diversa maturità dei processi, il controllo di gestione può agire, per esempio, come stampella dell’amministrazione, tagliando le curve e permettendo rendicontazioni periodiche decentemente competenziate, laddove per ragioni diverse ciò non avvenga con la necessaria accuratezza in contabilità.

In altri casi, il controllo di gestione agisce di supporto al business, tramite la reportistica, permettendo confronti omogenei e abilitando la discussione manageriale circa gli stati di avanzamento e le necessarie azioni correttive. Oppure, arricchisce (ma mai può sostituirla) la discussione di pianificazione strategica, supportando tramite elaborazioni prospettiche la definizione dei vari scenari di sviluppo ipotizzati. Insomma, il controllo di gestione è un abito per tutte le stagioni: si utilizza per vari scopi e in larga misura dipende da come chi ne è responsabile interpreta il suo ruolo. Personalmente, credo di aver attraversato le diverse fasi, e anche se oggi non mi occupo più direttamente di controllo di gestione, in fondo… continuo ad attraversarle. Alla fine degli anni ‘90 arrivai al cospetto del grande monopolista del settore elettrico, insieme ad un gruppetto di scalpitanti neoassunti in calzoni corti. Era l’anno precedente la societarizzazione e poi la quotazione, e poi la liberalizzazione del settore. In quegli anni lavoravamo ventre a terra per “tirare fuori i numeri”, senza troppo concentrarci sul loro significato, ma semplicemente perché in quel momento era di grande importanza identificare dei perimetri di business che poi negli anni sarebbero divenuti le società operative del gruppo, una quota delle quali destinata alla vendita a soggetti privati. Di fatto, il controllo di gestione rappresentava una falange avanzata del processo amministrativo (falange detestata, e pienamente ricambiata, dagli amministrativi “in carica”), in grado di fornire informazioni che, seppur non esatte, erano quantomeno verosimili su un business in profonda trasformazione che non poteva permettersi di aspettare sei mesi per valutare i risultati dell’anno precedente. Più avanti, da giovane CFO di una branch italiana di una multinazionale franco-belga impegnata nella costruzione di impianti di produzione elettrica in Italia, orientammo il controllo di gestione alla misurazione a breve, medio e lungo termine dei fabbisogni di cassa. Con un parco impianti in costruzione, il conto economico non era la priorità (non ci sarebbero stati ricavi fino al completamento dei lavori). Vitale era invece la gestione dei flussi di cassa attuali e prospettici, a supporto dei processi di tesoreria, per poter gestire efficacemente la relazione con i fornitori e il rispetto della stretta tempistica di esecuzione dei progetti. Più avanti, completati i cantieri, abbiamo avviato un ciclo di pianificazione e controllo fortemente orientato nello scambio di reportistica con la capogruppo, focalizzandoci sul reporting, dilettandoci in tutte le tipologie di analisi verticali orizzontali e diagonali richieste da
Corporate. Qualche anno dopo, con l’avvento della grande crisi del settore della produzione elettrica, un ulteriore passaggio: i report alla capogruppo erano ancora importanti, ma siccome portavano brutte notizie erano diventati merce decisamente meno sexy (e poco adatti ai vaporosi uffici
della Corporate a Parigi). Più importante, e decisamente meno popolare, era diventata invece la stesura di piani di ristrutturazione e salvataggio per definire insieme alle banche finanziatrici piani di rientro credibili (e dovevano essere credibili anche per il giudice… cosa non del tutto scontata).
Qualche anno dopo, e siamo praticamente arrivati ai giorni nostri, la più grande azienda italiana in termini di addetti, operativa in settori diversissimi fra la logistica, finanza e assicurazioni, doveva andare in Borsa. Lo sforzo in quel caso, fu impacchettare un set di informazioni ragionevolmente comprensibili al mercato, che potesse poi essere rendicontato ed auditato trimestralmente. Alla fine lo sbarco in Borsa è avvenuto con successo.

Ricette e consigli?

Pochi, e semplici.
A differenza di chi, come me, ha cominciato l’attività in tempi in cui la disponibilità del dato era una conquista (erano gli albori del SAP in Italia, il sistema delle aziende era dominato da applicativi contabili spesso in house, e di sistemi di controllo di gestione nella migliore delle ipotesi indipendenti dai risultati contabili: gli amministrativi erano separati dai pianificatori, il CFO non era stato ancora inventato), oggi viviamo nell’era della conoscenza e dell’accesso libero ed istantaneo ad una moltitudine di informazioni. Schiere di società di consulenza, major della revisione, IT companies, sono pronte ad installare sistemi di monitoraggio e controllo in grado di leggere consuntivi al posto nostro, costruire report al posto nostro, perfino pianificare, tramite algoritmi, al posto nostro. Quello che questi sistemi (per adesso) non riescono a fare, è pensare al posto nostro.
E per pensare, ed essere utili, al business e a chi ci lavora è fondamentale capire.

 

Consiglio n. 1: zitto e ascolta
Appena arrivato nella mia attuale azienda ho chiesto al capo dell’ingegneria quale fosse lo stato dei rapporti fra la sua struttura e la mia. La risposta è stata serena e disarmante allo stesso tempo. Mi dice “facile: voi fate le domande, noi diamo le risposte”. Allora ho chiesto se le domande che facevamo erano quelle giuste. Risposta “beh, francamente no, ma comunque voi domandate, noi rispondiamo”. Tenuto conto che l’azienda in questione è una quotata, che opera in un settore strategico dello Stato, e che il 70% è in mano a privati, tipicamente investitori istituzionali di area USA e UK… direi che come inizio c’era poco da stare allegri. Ciò che non dobbiamo mai dimenticare è che il ruolo attribuito al controller è di per sé
costitutivo del diritto di domandare. E questo diritto è normalmente riconosciuto in azienda. Ma al diritto di domandare va affiancato il dovere di capire. Cosa più difficile, e per niente banale. E per capire bisogna andare dall’altra parte della scrivania, dove siede il collega cui noi poniamo le nostre domande. E allora, ci sarà tempo per fare il report. Uscite subito dall’ufficio, andate nello stabilimento, sull’impianto, al front office… insomma, in qualunque posto si gestiscano i processi. Non avete bisogno dei simboli del potere tipici del controller: abito antracite, gemelli, orologio. Piuttosto, infilatevi un paio di jeans e andate a trovare chi lavora in fabbrica, o dovunque avvengano le cose. Vedrete, sarete ben accolti. Mostrare che il centro è interessato ai processi operativi è così raro che spesso è accolto come una piacevolissima rivoluzione. Avrete il problema di contenere leinformazioni, piuttosto che doverle estorcere per telefono.

 

Consiglio n. 2: severi ma giusti
Il controller vive una popolarità altalenante. Prossima allo zero al momento della fissazione degli obiettivi, ai massimi al momento della loro quantificazione quando, tipicamente, restatement e pro-forma diventano le parole più pronunciate in azienda, per raddrizzare imbarazzanti situazioni in cui i consuntivi – guarda un po’ – atterrano un po’ lontani dalle previsioni roboanti della vigilia. Non esercitate allora il vostro ruolo per favorire qualcuno, o per penalizzare qualcun altro. Non utilizzate la vostra posizione per accrescere il vostro potere. Se volete essere credibili e potenti,
siate onesti, trasparenti e giusti, l’organizzazione lo capirà in fretta. Soprattutto se andrete incontro, anche fisicamente, ai colleghi. E lo capirà in fretta anche il vertice. La cosa migliore che può capitare è che tutti si lamentino di quel controller “un po’ rigido”. Se ciò avviene, avete centrato l’obiettivo: sarete rispettati in quanto giusti.

 

In conclusione

Non c’è controllo di gestione senza gestione, e conoscenza della gestione. Ogni ora investita per comprendere effettivamente cosa si fa in azienda, sperabilmente fuori dall’ufficio e magarianche fuori la sede centrale, è di fondamentale importanza. Spesso il quotidiano ci costringe alla scrivania, ma ogni volta che vado sul territorio rimpiango di non esserci andato prima: avrei capito meglio, più rapidamente e avrei fatto meno errori. Infine un automatismo non trascurabile ma che – vi posso assicurare – funziona sempre. Se si va incontro al business, il business verrà incontro a voi. Non sarete più visti come voraci masticatori di numeri e slides, a caccia di informazioni che nessuno vuole darvi perché nella migliore delle ipotesi fate perdere tempo. Verrete visti come colleghi, facilitatori, che potranno aiutare a risolvere i problemi e che forniranno stimoli, consigli ed indicazioni per crescere.
È più faticoso che dipingere slides, ma è infinitamente più divertente. Parola.

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